Dott.ssa Maria Rita Vecchio
Il Trauma

Il Trauma

Il termine “trauma” deriva dal greco τραῦμα che significa “ferita”, “rottura”. Quando parliamo di trauma possiamo riferirci sia a una ferita fisica, sia allo shock che l’organismo può subire in determinate circostanze. In entrambi i casi, l’evento viene percepito dalla persona come incontenibile o meglio non integrabile. Di conseguenza, avviene la scissione e la successiva rimozione della componente emotiva riguardante l’evento stesso (trauma psicologico). Appena questo meccanismo viene attivato, la persona attuerà una determinata risposta fisiologico-comportamentale sia nel momento in cui si ritrova in una situazione simile, sia quando si presenta il solo pensiero della possibilità che l’esperienza si possa ripresentare. Elementi non direttamente correlati, cosi come sintomi fisici particolari, vengono elaborati dalla persona come potenzialmente letali. Si instaura cosi un “circolo vizioso” che porta alla successione di meccanismi di attacco-fuga-congelamento, con tutta la sintomatologia che ne consegue (Dissociazione; Somatizzazione; Disregolazione emotiva[1]).  

La letteratura divide i traumi in due categorie: 

  1. t”: piccoli traumi (in questo caso la percezione del pericolo è presente, ma è spesso contenuta dalla persona);
  2. T”: grandi traumi (eventi che minacciano l’integrità fisica propria o di persone vicine);

Nel DSM-5 per la diagnosi del Disturbo da stress post-traumatico (PTSD) è necessario che:

  1. La persona sia stata esposta a un trauma, quale la morte reale o una minaccia di morte, grave lesione, oppure violenza sessuale (criterio A) facendo un’esperienza diretta o indiretta dell’evento traumatico oppure venendo a conoscenza di un evento traumatico violento o accidentale accaduto ad un membro della famiglia o ad un amico stretto. Traumatica è anche l’esposizione ripetuta o estrema a dettagli crudi dell’evento traumatico come ad esempio succede ai primi soccorritori.
  2. Sintomi intrusivi correlati all’evento traumatico insorgano dopo l’evento traumatico, (criterio B): ricordi, sogni, flashback che possono portare alla completa perdita di consapevolezza dell’ambiente circostante. Può esserci intensa o prolungata sofferenza psicologica e reattività fisiologica in risposta a trigger che simboleggiano o assomigliano al trauma.
  3. Evitamento persistente degli stimoli associati all’evento traumatico che viene messo in atto dopo l’evento traumatico (criterio C). Interessa sia fattori interni come ricordi spiacevoli, pensieri o sentimenti relativi o strettamente associati all’evento traumatico, che fattori esterni quali persone, luoghi, conversazioni, attività, oggetti e situazioni che possono suscitare ricordi spiacevoli, pensieri o sentimenti relativi o strettamente associati all’evento traumatico.
  4. Alterazioni negative di pensieri ed emozioni associate all’evento traumatico si manifestano dopo l’evento traumatico (criterio D). La persona può non ricordare qualche aspetto importante dell’evento traumatico, sviluppare persistenti ed esagerate convinzioni o aspettative negative su sé stessi, gli altri, o sul mondo. Possono manifestarsi pensieri distorti e persistenti relativi alla causa o alle conseguenze dell’evento traumatico che portano a dare la colpa a sé stessi oppure agli altri. Si può inoltre sperimentare uno stato emotivo negativo e provare sentimenti persistenti di paura, orrore, rabbia, colpa o vergogna, una marcata riduzione di interesse o partecipazione ad attività significative, sentimenti di distacco o di estraneità verso gli altri o incapacità di provare emozioni positive come felicità, soddisfazione o sentimenti d’amore.
  5. Marcate alterazioni dell’arousal e della reattività associati all’evento traumatico si manifestano dopo l’evento traumatico (criterio E) come comportamento irritabile ed esplosioni di rabbia (con minima o nessuna provocazione) tipicamente espressi nella forma di aggressione verbale o fisica nei confronti di persone o oggetti, comportamento spericolato autodistruttivo, ipervigilanza, esagerate risposte di allarme, problemi di concentrazione, difficoltà relative al sonno come difficoltà nell’addormentarsi o nel rimanere addormentati oppure sonno non ristoratore.
  6. La durata delle alterazioni descritte è superiore ad 1 mese (criterio F).
  7. Il disturbo causa disagio clinicamente significativo o compromissione del funzionamento in ambito sociale, lavorativo o in altre aree importanti (criterio G).
  8. Il disturbo non è attribuibile agli effetti fisiologici di una sostanza come ad esempio farmaci o alcol o a un’altra condizione medica (criterio H). A seguito di un evento stressante, oltre a sviluppare un PTSD, si possono manifestare: depersonalizzazione (sentirsi distaccati dai propri processi mentali come se si fosse un osservatore esterno al proprio corpo) e derealizzazione (persistenti o ricorrenti esperienze di irrealtà dell’ambiente circostante).

Un evento non è traumatico in sé, ma l’etichetta “traumatica” è strettamente legata all’esperienza soggettiva e alla ricorsività dei traumi nella vita di una persona. Infatti, molti studi hanno evidenziato come traumi relazionali cumulativi vissuti nella primissima infanzia possano aumentare la probabilità alla vulnerabilità verso ulteriori sviluppi traumatici. Uno dei fattori che influisce maggiormente su questa tendenza alla ricorsività è legato alla funzione di Non-integrazione acquisita dalla memoria per le componenti emotivo-razionali, che conducono alla dissociazione delle esperienze stesse (Van der Kolk, 2005) fino all’alienazione di parti di sé (Fisher, 2009). 

Trauma, Stili di Attaccamento e Patterns Relazionali 

Ricordiamo il Mito di Edipo (in greco antico: Οἰδίπους, Oidípūs, che significa “dai piedi gonfi”) per sottolineare l’importanza del corpo nella costruzione dell’identità, presupposto importante per capire il trauma. 

L’Io-Motorio è un Io-Relazionale: la prima relazione che abbiamo è quella con la “madre”. Il neonato entra in relazione con la madre prima della nascita e, subito dopo il parto, il contatto diretto madre-bambino permette al piccolo di sintonizzarsi e di esplorare la vastità affettivo-emotiva dell’ambiente circostante. Grazie a questa continua Sintonizzazione affettiva (D. Stern) “l’altro diventa come me”. Già a poche ore dalla nascita il bambino imita i movimenti dell’adulto che gli sta vicino. Il sistema motorio, già prima della nascita, va oltre il compimento del movimento (Il corpo non dimentica. L’Io motorio e lo sviluppo della relazionalità. Ammaniti M., Ferrari F. Raffaello Cortina Ed. 2020). 

Grazie alla sintonizzazione, l’evento viene riformulato e l’attenzione viene ad essere diretta a tutto quello che va oltre l’effettivo comportamento (bisogni). Questo meccanismo porta al processo di riconoscimento delle emozioni. La qualità dell’attaccamento madre-bambino influisce sulla sintonizzazione affettiva e, di conseguenza sulla costruzione dell’apparato di orientamento e riconoscimento emotivo del bambino.

Nella storia di Edipo c’è un abbandono proprio al momento della nascita e possiamo notare che la caratteristica fisica, il piede gonfio, è un segno che lo caratterizzerà per sempre, esso implica un legame identitario forte che persiste al tempo. 

Gli stili di attaccamento Insicuro, Evitante, e Disorganizzato (J. Bowlby) comportano un insieme di difficoltà sia nella sintonizzazione con il mondo esterno, sia nell’autoregolazione. Questi stili di attaccamento si trasformano in modelli interni di attaccamento (MOI) ed agiscono nell’individuo durante tutto il corso della vita, influenzando sia la percezione degli eventi che l’attivazione fisiologica dell’individuo. I Modelli Operativi Interni regolano anche le nostre relazioni, divenendo con il tempo “pattern relazionali strutturati e abituali”. Da qui la persona si muoverà nel mondo tramite una serie di risposte “animali” che permettono l’attivazione di un comportamento conservativo per la specie, ma spesso non più funzionale per la persona (Attacco; Fuga; Congelamento; Sottomissione; Attaccamento). Si tratta di risposte precostituite che spesso portano alla perpetrazione del malessere in quanto mettono l’individuo inconsapevole di fronte alla stessa situazione, come la scena di un film che si ripete all’infinito

“Il trauma incide sia a livello intrapsichico (capacità introspettive) sia a livello interpersonale (capacità relazionale e sociale), alterando la percezione della realtà che ci circonda”.

Il Trauma e la Tripartizione del Sistema Neurovegetativo 

Il sistema neurovegetativo è formato da sottosistemi che si attivano in maniera gerarchica di fronte alle sfide ambientali (Porges, 2001):

  1. Il ramo ventrale parasimpatico del nervo vago, evolutivamente più recente e sofisticato, regola l’impegno sociale e favorisce un arousal ottimale, entro una “finestra di tolleranza”.
  2. Il sistema simpatico, evolutivamente più primitivo e meno flessibile, regola le riposte difensive di mobilizzazione, permettendo l’attivarsi delle reazioni di attacco e fuga, innalzando il livello di arousal globale per massimizzare le possibilità di sopravvivenza di fronte ad un pericolo.
  3. Il ramo parasimpatico dorsale del nervo vago si attiva come ultima linea difensiva quando le modalità precedenti falliscono nel loro obiettivo, riducendo drasticamente l’arousal sino allo svenimento o “finta morte” e consentendo l’immobilizzazione involontaria funzionale alla sopravvivenza. 

Quindi, in una situazione di pericolo, dopo essere falliti i tentativi legati all’impegno sociale (es: la negoziazione) e dopo aver valutato l’impossibilità di un attacco o di una via di fuga, viene attivato un distacco involontario, ma funzionale, dall’esperienza che permette una dissociazione dal dolore grazie alla perdita di controllo sul corpo.

Questa fluttuazione funzionale dell’attivazione diventa cronica nel corso di esperienze traumatiche ripetute (fattore ricorsività). Quando il sistema di impegno sociale e la qualità dell’attaccamento non sono ottimali, viene a mancare il senso di sicurezza necessario per lasciare i sistemi nella liberà fluttuazione in corrispondenza degli stimoli esterni. Di conseguenza, gli ultimi due sistemi (simpatico e parasimpatico dorsale) sono sempre attivati, mentre il sistema legato all’impegno sociale (parasimpatico ventrale) smette di funzionare (questo implica l’incapacità di instaurare relazioni funzionali). 

Di fronte a un trauma la memoria perde la capacità di integrare i vari elementi relativi all’evento: avviene una scissione della traccia mnestica: da una parte ciò che è accaduto spesso privo di elementi perché congelati e, dall’altra il contenuto emotivo che, ormai forcluso, prende vita a livello corporeo. Se l’emisfero sinistro può continuare la sua vita come se fosse una macchina, l’emisfero destro segnala il vissuto a livello di sintomi psicosomatici, immagini disfunzionali, sensazioni corporee, posture disfunzionali.

La persona resta come divisa in due aspetti: quello che le permette di andare avanti nella quotidianità evitando i ricordi traumatici e quello che comprende tali ricordi e innesca azioni difensive automatiche contro la minaccia. Si tratta di una dissociazione strutturale: sulla scia del trauma originario una parte di sé resta bloccata sulla difesa dal pericolo, mentre un’altra parte di sé con vari gradi di difficoltà cerca di vivere la quotidianità e di attendere ai compiti degli altri sistemi d’azione (accudimento, sessualità, gioco, esplorazione, socialità). Quando uno stimolo interno (una sensazione o un’emozione) o esterno (qualche elemento del contesto o il comportamento di un’altra persona) ricorda la situazione traumatica il sistema di difesa si attiva prepotentemente e interrompe ogni altra attività in corso. La persona in quel momento non è più in grado di continuare le attività quotidiane e si ritrova in balia di un’attivazione neurovegetativa estrema e non regolata. Il corpo si blocca, si tende per fuggire, attaccare o si accascia su sé stesso. In queste condizioni non c’è alcuna possibilità di avere accesso a una qualche riflessione.

La dissociazione è uno degli effetti collaterali del trauma psicologico che, a sua volta, comporta delle limitazioni sul piano dell’identità, della regolazione emotiva e delle capacità metacognitive. Alcuni teorici postulano la formazione di vari sé, cioè sottosistemi che hanno proprie caratteristiche identitarie (Fisher; Van Der Hart) e che risultano scollegate tra loro (Dissociazione strutturale della personalità), di conseguenza, tanto più grave o ripetitiva è la traumatizzazione, tanto più vasto sarà il piano strutturale dei sé emersi (costellazioni di sé). Inoltre, quanto maggiore è la gravità del trauma, tanto maggiore sarà la non integrazione tra i sistemi orientati all’azione e all’adattamento al presente e quelli deputati alla difesa dai pericoli.  Tale divisione basilare comporta l’alternanza tra due parti della personalità: la parte apparentemente normale della personalità (ANP) e la parte emozionale (EP).

Da questo breve quadro emerge la necessità di comprendere la specificità della personalità per lavorare sul sistema d’integrazione. È possibile declinare in modo dimensionale la dissociazione su 3 livelli:

  • D. Primaria: tipica del disturbo da stress post traumatico e delle forme più semplici di disturbi dissociativi come alcuni disturbi di conversione. Prevede una ANP che comprende la maggior parte della personalità ed una EP con le restanti parti dissociate della personalità.
  • D. Secondaria: presente in disturbi quali disturbo da stress post traumatico complesso ed il disturbo borderline di personalità derivato da traumi. Implica la presenza di una ANP e di due o più EP ciascuna con diversi livelli di autonomia (a volte una EP che agisce e l’altra che osserva).
  • D. terziaria: presente nel disturbo dissociativo di identità (DID). Comporta la compresenza di molteplici ANP tutte attive nella vita quotidiana e molteplici EP che manifestano ciascuna uno specifico sistema d’azione (ad esempio una EP di tipo fight ed una che imita l’aggressore).

I sopravvissuti ad eventi traumatici solitamente mostrano una ANP attiva nel portare avanti i compiti della vita quotidiana come l’attaccamento, l’accudimento, la sessualità, ed impegnata, allo stesso tempo, ad evitare i ricordi traumatici. Il trattamento della dissociazione strutturale della personalità implica l’intervento ed il superamento dei fattori di mantenimento, quali l’evitamento fobico e cronico da parte delle ANP delle intrusioni delle EP portatrici di ricordi, pensieri e sensazioni relativi al trauma.

Trauma: il Ciclo “Vergogna-Rabbia-Tristezza”

La vergogna è quell’emozione che insorge di fronte a una reale o ipotetica disapprovazione di fronte a un nostro comportamento da parte degli altri. La vergogna è un’emozione che si indossa, infatti la sensazione che l’accompagna è prettamente fisica: “mi sento nudo; smascherato”. A questo smascheramento si accompagna un irrigidimento fisico che comporta il desiderio di diventare invisibili (sparire). La controparte della vergogna è data dalla sensazione di integrità del proprio sé, dalla possibilità di evidenziare confini netti tra noi e gli altri. 

Da questa breve premessa, emerge l’importanza di questa emozione nell’ambito delle relazioni: utilizzata in maniera funzionale è possibile distogliere lo sguardo dal nostro mondo e concentrarci sul modo di vedere la realtà delle persone che ci circondano, questo ci dà una misura relazionale funzionale per la nostra crescita. Questo aspetto relazionale riguarda anche l’altro interiorizzato, ma quando questa parte interiorizzata si cronicizza, emerge una parte di noi critica e spesso invalidante. 

Essendo un’emozione maschera, spesso viene camuffata da emozioni più accettabili per l’individuo: rabbia, odio, invidia, tristezza. Si evince quindi la stretta connessione tra la dimensione personale e intima e quella relazionale, dove l’altro, reale o immaginario, è oggetto di competizione e di proiezioni. L’altro non solo è fonte di invidia e rabbia per quello che sento e per quello che non ho, ma esso è anche la meta della mia vendetta per il torto subito direttamente o indirettamente (ironia, sarcasmo, aggressività) (Kohut, 1971). 

In questo caso si parla di un circolo vizioso “Vergogna-Rabbia o Vergogna-Tristezza”. La sensazione che guida questo processo è quella di essere oggetto e non soggetto, o meglio di essere soggetto al giudizio altrui…con tutto quello che da ciò può conseguire: proprio come Eva quando venne scacciata dal paradiso, la sensazione è quella di essere stati buttati in questo mondo come cose e quindi di dover nascondersi dagli sguardi (soprattutto dal proprio). Ne consegue che: 

“se provo vergogna (emozione) è perché sono indegno (pensiero) quindi devo nascondermi/evitare o attaccare (comportamento)”.

Qui entra in gioco l’importanza della “narrazione”: è necessario scrivere nuovamente la propria storia includendo e donando dignità al proprio dolore. Infatti, in terapia, grazie alla ri-narrazzione condivisa della storia personale, è possibile includere gli aspetti più profondi e nascosti di noi per dare a loro respiro e trasformarli in opportunità per la nostra vita. 

Qual è il paradosso che caratterizza la Vergogna? Parlare della propria vergona tende ad accrescerla, non considerarla ci lascia in balia delle parti più infantili potenzialmente letali nel qui ed ora perché in preda al comportamento di sottomissione. Spesso questa modalità si ripropone come uno schema relazionale costante: “mi sottometto o aggredisco perché in preda alla parte di me che vive nel passato”. Ciò porta a rifuggire dalle relazioni o a far sì che l’altro confermi il nostro perverso e inconsapevole gioco mentale. Non si tratta solo di relazioni intime, spesso questi meccanismi si ripresentano nelle situazioni più disparate e in presenza di stressors lontani dall’originale fonte di dolore. Tra le dinamiche di riattivazione costante possiamo brevemente citare le difficoltà legate alla comunicazione, l’incapacità ad essere assertivi o l’aggressività comunicativa, la facilità con cui si dice Si, o l’incapacità a dire No alle richieste altrui. Come possiamo vedere, questi meccanismi comunicativi possono caratterizzare tutte le relazioni, anche quelle lavorative. Come conseguenza esterna c’è la conferma dell’idea che abbiamo di noi e degli altri (aspettative) e interna abbiamo l’attivazione dei processi di pensiero come i pensieri intrusivi e la ruminazione. In questo scenario catastrofico, ogni possibilità di cambiamento in positivo nel mondo reale appare impossibile, e spesso l’unica soluzione che la persona trova è la chiusura parziale o totale con il mondo

Il Mito di Medusa: 

Mi sembra opportuno a questo punto riportare il mito di Medusa, che spiega bene l’effetto paralizzante che ha il trauma sulle persone.

Medusa era una bellissima fanciulla in grado di sedurre gli uomini con lo sguardo. Tanta bellezza suscitò l’attenzione di Poseidone e, di conseguenza, l’invidia di Atena. Atena decise di trasformarla in un mostro dai capelli di serpente, in grado di trasformare in pietra chiunque osasse guardarla. Fu cosi relegata in un’isola oltre l’oceano, dove abitavano anche le altre Gorgoni, Steno ed Eurialo, due semidee, che differentemente da Medusa, erano immortali. Il re di Serifo, Polidette, inviò Perseo ad uccidere Medusa, pensando in tal modo di liberarsi di lui per poterne sposare la madre; una volta che Perseo raggiunse le Gorgoni, le trovò che dormivano: con la mano guidata da Atena e guardandone il riflesso nello scudo per evitare di restare pietrificato, riuscì a decapitare Medusa: dalla ferita uscirono subito il cavallo alato Pegaso e il gigante Crisaore, i figli che la Gorgone aspettava da Poseidone. Perseo portò con sé la testa di Medusa, che non aveva perso il suo potere di pietrificare con lo sguardo e la usò come arma per liberare Andromeda e pietrificare Polidette e cosi liberare la madre.

Le Gorgoni erano tre sorelle: Medusa, Steno ed Euriale e rappresentavano la perversione nelle sue tre forme: sessuale, morale e intellettuale. Possiamo interpretare la decapitazione di Medusa da parte di Perseo come una liberazione dagli eccessi dell’intelletto in grado di trasformare la vita in pietra tramite uno sguardo schematico e freddo.

Il mito dà un’estrema importanza all’aiuto esterno: Perseo non è solo, ma viene aiutato attraverso dei doni da Ermes (il vento, la leggerezza e la velocità) e Atena (saggezza e strategia).Il ricordo del trauma ci traumatizza ancora, non si può guardarlo diritto negli occhi senza rimanerne pietrificati (P.A. Levine). La psicoterapia permette di affrontare gli ostacoli nel percorso di 

guarigione e aprire gli occhi per usare con efficacia le risorse e le strategie che l’esperienza ci ha regalato. 

Il Trattamento del trauma Complesso:

Come abbiamo visto, dopo continue esposizioni alle situazioni traumatiche, il cervello e il corpo vengono sensibilizzati agli stimoli percettivi associati a ciascuna esperienza traumatica, in modo da essere sempre vigili di fronte alla presunta minaccia. Quindi, anche in presenza di un ricordo la persona reagisce con risposte arcaiche non appropriate (Van der Kolk, 2015; Van der Kolk et al, 1996). Ne consegue che lo stato emotivo è intensificato ed è spesso ingestibile:

  • Impulsività;
  • Intorpidimento;
  • Depressione;
  • Distacco della realtà;
  • Passività;
  • Perdita di Energia/Iniziativa;
  • Difficoltà nella Regolazione Emotiva (van der Kolk, 2015; Ogden et al, 2006). 

A questi disturbi, si accompagnano spesso una serie di disturbi secondari: disturbi d’ansia, dipendenze, disturbi alimentari, disturbo ossessivo-compulsivo, comportamenti autodistruttivi. Ne consegue che accanto al trattamento di questi disturbi secondari è necessario intervenire sulla sede dei ricordi traumatici, cioè sugli effetti automatici e somatici che attuano la predisposizione alla reazione psicofisiologica ormai disfunzionale. 

La Society for Traumatic Stress Studies Consensus Guidelines (2012), individua la necessità di integrare più approcci per il trattamento del trauma complesso. La tecnica prevede l’identificazione di tre fasi: 

  1. Stabilizzazione; 
  2. Rielaborazione deltrauma;
  3. Consolidamento dei risultati e integrazione. 

Emerge la necessità di attenzionare i pattern corporei nel qui ed ora della seduta al fine di conseguire una veloce stabilizzazione delle risposte emotive iper/ipo-attivate. Nel corpo è visibile la traccia mnestica dell’evento traumatico, quindi è necessario partire dal corpo per riconoscere, elaborare e integrare i vari aspetti di sé. Grazie alla relazione terapeutica, è possibile riconoscere e ripristinare le interruzioni di contatto. La stessa relazione terapeutica permette di riprendere il dialogo interrotto tra le varie parti di sé, e ciò ripristina la continuità del vissuto soggettivo nel qui ed ora. 

In una cornice gestaltica è possibile integrare le tecniche sensomotorie e comportamentali per riattivare il flusso vitale della persona verso una nuova modalità relazionale sia intrapsichica sia interpersonale. Gli obiettivi della terapia possono essere cosi riassunti: 

  1. creazione del processo di stabilizzazione; 
  2. contatto e integrazione con le parti di sé doloranti; 
  3. identificazione delle potenzialità della persona; 
  4. riduzione della sintomatologia e riattivazione nel presente; 

Riferimenti:

Ammaniti M., Ferrari F. “Il corpo non dimentica. L’Io motorio e lo sviluppo della relazionalità”. Raffaello Cortina Editore. Milano, 2020.

Levine, P. A. (2014). Somatic Experiencing. Esperienze somatiche nella risoluione del trauma. Roma: Casa Editrice Astrolabio-Ubaldini Editore. 

Fisher, J. (1999). Addictions and trauma. Paper presented at the 2000 Annual Conference of the International Society for the Study of Dissociation, San Antonio, Texas.

Fisher, J. (2017). Guarire la frammentazione del Sé: come integrare le parti di sé dissociate dal trauma psicologico.

Fisher J. “La Psicoterapia Sensorimotoria nel Trattamento del Trauma”. Ph.D.Raffaello Cortina Ed. 2020

Pandolfi, A. M. (2002). La vergogna. Un affetto psichico che sta scomparendo? Milano: Franco Angeli.

Steele, K., van der Hart, O., & Nijenhuis, E. R. S. (2001). Dependency in the treatment of complex posttraumatic stress disorder and dissociative disorders. Journal of Trauma & Dissociation, 2 (4), 79-116.




[1]Bessel van der Kolk et al., AJP, 1996